ogni donna è un’isola
“Ogni donna è un’isola, un’isola che protegge e dilata, coincidente con la pura poesia. Claudia Chianese ne ha una estrema certezza e il suo non è l’indagare dello spirito di conoscenza o il procedere per immagini e visioni non intimamente e visceralmente vissute. Claudia narra di un essere autonomo, fiero nella sua bellezza, completo nella sua essenza creativa e spirituale, ambivalente nel suo essere isolato e in relazione (cit. Claudia Chianese), capace di rinascere a nuove vite. Il suo è un percorso dell’andare e ritornare, del chiamare e fuggire, dove pulsa il respiro di chi le è accanto, nella fatica del cammino, dove vibra un’angoscia senza limiti ed un amore esteso che sono linfa rigenerante e curativa.
Claudia procede per apparizioni, per frammenti – frammenti di isole – , per stralci di profumi e sordi attraversamenti, per rimembranze di acque fluide e aridi bagliori. La sua isola, nella duplice connotazione di materialità e spiritualità, nella sua natura liquida che riempie ogni spazio vuoto e cavo, produce un’azione centripeta, ampliata nel tempo e nello spazio. (…) In un attraversamento infinito, il pensiero lirico dell’isola ripete in modo ciclico la sua nascita e rinascita, toccando viscere e cielo (cit. Maria Zambrano): l’isola è l’esperienza della trascendenza, conoscibile solo attraverso il vuoto indefinibile che lascia, un atomo di silenzio o istante di lacerazione. Così, ogni isola possiede una storia che parla di sangue e ferite, di nuove generazioni e rigenerazioni, araba fenice che risorge dalle sue ceneri dopo istanti di accadimenti.
Ogni donna è un’isola e ogni donna ha almeno una ferita da raccontare sul cuore o sulla pelle, come l’isola di Claudia, Pantelleria, rossa e nera di lava, disseminata di inflorescenze di ogni tipo, di soffi incandescenti che sgorgano dalle viscere e dalla spelonche, lambita dalle colorazioni – verdi, viola, blu – del mare che si infrangono nell’oscuro degli scogli, o trapassata dai laghi cristallini, dall’essenza dei pini e delle querce. Il 28 maggio 2016 un incendio doloso brucia 600 ettari a Montagna Grande. Sono tre giorni di dolore, di strazi e distruzione: il fuoco divora e trasforma rendendo la terra vicina al cielo. Tutto diventa immobile, seppellito dalla cenere in un muto silenzio, neanche il vento ha il coraggio di far udire la sua voce. L’isola ferita, solcata dai cadaveri degli alberi, coincide con il colore dell’ossidiana, del nero della luna, sospesa nelle onde ferme.
Percorrendo boschi e paesaggi, rintracciando minimi segnali e aneliti di presenze, l’artista accarezza con lo sguardo, sente la compassione, il patire con, diventa testimone di un momento di liberazione e scorge, così, i segni di una vita nuova, rigenerata dal fuoco, che emerge con la sua tensione e la
sua prepotenza. Nel preciso istante in cui la morte rivela silenzi e accentua i livelli di confusione, incomprensione e disorientamento, inizia un percorso di resurrezione, rinascendo e accedendo alla vita, come afferma Jacques Derrida, a partire dal lutto che deve rimanere come spazio vuoto irrevocabile al cuore della vita stessa: allora la rinascita è ciò che sorge a partire da questo vuoto, prezioso, sapido di bellezza. (…) Così le ferite cicatrizzate si tramutano in percorsi luminosi, aurore che non rinnegano l’oscurità da cui provengono ma approdano in sentieri sul cominciamento del mondo. E diventano, nell’opera dell’artista, immagini di vite, chiarori di anime, occhi sulla realtà aumentata dal dolore/amore, particelle vive di arbusti che si trasformano in corpi e perle, leghe di minerali plasmati in preziosi gioielli.” (dal testo critico di Roberta Melasecca)
aqva
Deus sive Natura: l’assunto di Baruch Spinoza può indicare la direzione verso cui tende la ricerca di Claudia Chianese, che è una costellazione complessa di arte e spiritualità. La natura, sua fonte d’ispirazione costante, è permeata dal Divino e, attraverso il processo creativo e la riflessione personale, emerge alla coscienza un senso panico di appartenenza al Tutto.
In questa mostra una serie di fotografie in bianco e nero del 2017, scattate alle isole Seychelles, sono il risultato di una ricerca sulla natura dell’acqua e i documenti di un percorso di meditazione.
La fotografia di Claudia Chianese è sguardo sul mondo e sguardo interiore, che coglie nella visione gli elementi minimi del reale come parte del sé. L’artista pone tutti i suoi sensi all’erta, isolandosi, come in un giardino Zen. Rincorre le forme insolite e cangianti della schiuma del mare, che si insinua tra le rocce e muove la sabbia, creando nell’immagine fotografica composizioni astratte, che hanno campiture bidimensionali. Un’alternanza di linee morbide e nette divide lo spazio visivo in due mondi, il bianco e il nero, con tutte le variazioni tonali date dalla porosità delle superfici e dall’irregolarità dei granelli di sabbia. Alcune fotografie definiscono volumi e geometrie delle rocce, ridisegnandole in forma di sculture.
Gli scatti inquadrano particolari, sfiorano la superficie dell’acqua e attraverso l’immagine sembrano assorbirne i rumori e i gorgoglii, in un complesso gioco sinestetico. A tratti l’obiettivo della macchina fotografica si allarga e si rivolge verso il cielo, le nuvole e l’orizzonte. Più spesso si concentra sui contorni delle rocce e sui riflessi mutevoli della risacca, a seconda delle zone d’ombra o di luce.
“Nel suo fluire, l’acqua esprime totale dinamismo. Essendo fluida, è sempre cangiante, mai uguale a sé stessa. Rappresenta lo scorrere del tempo e delle cose, simbolo di cambiamento, l’ha sempre rappresentato, in varie tradizioni e culture (…). L’acqua è vita, da sempre ha avuto una funzione catartica e l’immersione in quest’elemento la funzione di restituire all’essere umano la sua purezza, la sua vera natura spirituale”. Con queste parole Claudia Chianese commenta la sua esperienza di meditazione e fotografia, che è metodo di lavoro e cifra stilistica.
Il medium della fotografia diventa per l’artista lo strumento con cui fermare il flusso perpetuo della natura e dare forma al processo di osmosi tra sé e il mondo.
radura
Cammino e sento il fruscio dei miei passi, l’odore di terra umida, il bagliore della luce come una lama affilata. Respiro e mi sento vicina alla terra, all’acqua, al vento, al fuoco. Respiro e mi sento vicina a me stessa.
Mi abbasso e passo tra i cespugli, mi alzo e guardo in alto, vedo una luce così forte da squarciare il velo che separa la terra dal cielo. I nodi dei rami intricati mi ricordano i nodi dell’anima, a volte sembrano impossibili da sciogliere, poi all’improvviso tutto si apre inaspettatamente. La luce è ovunque. Cade come gocce sull’acqua, si posa come riflesso sulle foglie, splende comesperanza all’orizzonte.
claudia chianese
Il bosco di Claudia Chianese è fatto di materia e di visioni, di odori, suoni, alberi, foglie, terra e di sogni, di zone d’ombra e di squarci di luce. Una passeggiata diventa metafora di un percorso di rinascita e rigenerazione, in cui reale e ideale si fondono, attraverso l’esperienza sensoriale e la tensione emotiva e mentale. Una serie di scatti in bianco e nero raccontano questo viaggio nel fitto del bosco, di risalita verso il cielo, tendendo lo sguardo tra gli squarci del fogliame,aprendo varchi nell’intrico di rami, per ritrovare la luce.
Le fotografie, paesaggi naturali e particolari di piante, di rami, di riflessi sull’acqua o di ombre sul terreno, sono immagini raffinate e complesse, in cui i bianchi e i neri si declinano in una miriade di toni, attraverso lo sfumato e il fuori fuoco. Queste foto sono materiche, quasi ricami e disegni a inchiostro e acquerello. Una luna piena, anello di luce sullo sfondo buio del cosmo, apre e chiude il percorso, in cui il cerchio perfetto si chiude e tutto ritorna.
La Lichtung, di heideggeriana memoria, è l’uscita dell’uomo verso la luce improvvisa e abbagliante della radura dopo il cammino nell’ombra del bosco: il luogo dove l’Essere si disvela nella sua verità. Nella dialettica di contrari di cui è intessuto il linguaggio di Claudia Chianese, peso e levità, materia e idea si fondono, per dare corpo a un equilibrio fragile e prezioso tra legno e oro, corpo e mente, ombra e luce.
brunella buscicchio
2016 | testo scritto in occasione della mostra personale radura | a cura di brunella buscicchio | atelier di claudia chianese – roma
wood.wood.wood
legno trovato, accarezzato dai venti, lambito dalle acque, modellato dal tempo. legno che ha perso la sua funzione originaria e attende l’occasione giusta per trovare una nuova definizione d’identità. pregno di forza ancestrale, non è che un frammento momentaneamente sradicato, pronto a scavalcare il regno vegetale per rilanciare il messaggio di cui è portatore.
intanto l’albero è un simbolo universale che rappresenta la vita, l’energia, la forza.
l’albero accompagna il percorso esistenziale dell’uomo, la sua nascita stessa, il suo risveglio dal torpore con la comprensione e l’assunzione di responsabilità nei confronti di una scelta. ma è anche il tramite tra il divino e il terreno.
in oriente come in occidente non c’è stato saggio, filosofo, sciamano, mistico della storia che non abbia cercato risposte sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male, ricorrendo all’albero e alla sua potenza fisica e simbolica: adamo ed eva colgono la mela della conoscenza, siddharta siede sotto il fico o albero della bodhi raggiungendo l’illuminazione, in africa il baobab è simbolo totemico venerato e protetto da varie tribù, mentre gli aborigeni australiani trascrivono i messaggi degli spiriti sulla corteccia dell’eucaliptus e le civiltà precolombiane scelgono la ceiba come ponte tra cielo, terra e oltretomba (xbalbà).
anche claudia chianese cattura il mistero, la simbologia, la potenza dell’albero. nel legno riconosce l’elemento di una ricerca – che parte da una sua esigenza interiore – tesa al raggiungimento dell’unità.
il legno è anche il denominatore comune del suo lavoro di artista che spazia dalla scultura al gioiello, dalla fotografia alla pittura.
un’incontro apparentemente causale che stravolge la sua vita personale e professionale, quello con un pezzo di legno portato dal mare, sopravvissuto a chissà quali storie. raccoglierlo e prendersene cura, offrendogli una nuova possibilità di vita, è stato un gesto istintivo per l’artista.
“il legno è la ricerca dell’unità, formalmente rappresentata da un segno che è sempre il serpente della kundalini”, afferma claudia chianese.
rami che diventano radici, radici che si librano nello spazio. un atto di creatività gioiosa e pura non può che essere frutto di uno sguardo libero, supportato da una mente che lo è ancor di più nel saper cogliere la bellezza in tutti gli aspetti della vita, ma soprattutto nella natura.
spiritualità e creatività procedono parallelamente nella sua ricerca artistica, da quando nel 2008 – nel prendere le distanze da una brillante carriera in ambito pubblicitario – mette in discussione quelle che erano state fino a quel momento delle certezze e inizia una nuova fase della sua vita praticando la meditazione nel fare arte.
il risveglio parte dall’interno, come insegna la Kundalini mostrando proprio il serpente attorcigliato che riposa inerte nel primo chakra (detto anche casa del serpente dormiente), alla base della colonna vertebrale. è il simbolo dell’energia che nel riattivarsi cresce, innalzandosi di chakra in chakra, per trovare la sua massima tensione nel settimo quando la testa è finalmente eretta e punta in alto. anche per la sua attitudine a cambiare la pelle, il serpente è fin dall’antichità simbolo di trasformazione. l’armonia è insita nel superamento delle dualità, esiste nel momento in cui quel traguardo è finalmente raggiunto.
la forma del serpente, con il suo apparato iconografico e iconologico, è un elemento ricorrente nelle opere della chianese. nella scultura eden ripercorre, ad esempio, l’andamento del ramo, trovato nel giardino di fra’ sidival, in cima al colle romano del palatino, ed è sempre una traccia – sia nei gioielli che nelle sculture – che si materializza nella fusione in bronzo rosa a cera persa.
In cerchio di fuoco il segno stesso del fuoco, visibile nel cerchio di legno, ricorda che il cambiamento passa attraverso un’iniziazione, lì dove in totum il dialogo è tra pieno e vuoto e vede l’impiego del legno con la ceramica bianca.
scie, fiamme di luce, radice, evoluzione, cenere… ogni pezzo trova la sua armonia nella preziosità dell’unicità. il bronzo, in particolare, è un metallo usato dalla preistoria che procede di pari passo con la storia evolutiva dell’uomo.
il filo di bronzo che abbraccia il legno, insinuandosi nelle sue pieghe, s’illumina di quarzi traslucidi dalla sommità convessa (taglio cabochon) e da perle barocche, scelte proprio per la loro sintonia con l’irregolarità dei legni. In alcuni gioielli è presente anche l’impiego di occhio di tigre e corallo nero.
in divino femminile la sfera di selenite, collocata sulla sommità della scultura lignea, può essere sfilata dalla sua sede e trattenuta nel palmo della mano. questa varietà di gesso cristallino ha la proprietà di spostare l’energia, rigenerando le cellule del corpo attraverso il movimento dei fluidi. divino femminile è anche l’opera-simbolo in cui la percezione del superamento di tutte le dualità avviene proprio attraverso la presenza degli elementi conflittuali, ma è al femminile che viene riconosciuto il suo ruolo di tramite con il divino. in questo lavoro viene affrontato anche il tema della conoscenza ancestrale femminile attraverso il collegamento con i cicli naturali, le stagioni, le maree che definiscono il ruolo della donna in quanto madre generatrice tout court.
anche nei diversi monili – pendenti, orecchini, bracciali, collane, anelli, spille, cinture – viene rispettata la forma e l’essenza dei materiali. nell’indossarli si mette in atto una trasmissione di energie che rafforza l’estetica stessa dei pezzi.
quanto all’attenzione alla luce e alle sue declinazioni, si ritrova nel lavoro fotografico di claudia chianese, linguaggio che l’artista ha sempre praticato nel tempo. nella serie a colori foreste interiori, realizzata nel 2105 e concepita come un working progress, la luce è spesso soffusa. una luce che accompagna lo sguardo, assecondando il mistero che avvolge la natura. i dettagli appaiono in tutta la loro pregnanza a definire un momento del presente che diventa immortale.
manuela de leonardis
2015 | testo scritto in occasione della mostra personale wood.wood.wood | a cura di manuela de leonardis | atelier di claudia chianese – roma
genius noci
come nella “favola d’amore di hermann hesse un albero è il personaggio centrale dell’evento artistico che raccoglie intorno a un noce caduto e rinato sei autrici romane. ad ispirarlo è stata la parola forte e silenziosa di un tronco possente abbattutosi sul terreno nel 2008.
dalle radici di quell’albero coperte di terra sono spuntati nuovi arbusti dando vita a una composizione arborea dai forti contenuti simbolici e dale profonde evocazioni liriche. l’albero è stato assunto come nucleo da cui si irradia un rituale di rigenerazione al quale ognuna delle artiste dell’evento genius noci partecipa con un gesto in cui la forza dell’umana creazione si ricongiunge all’energia creatrice della natura sollecitando nuovi sguardi e una diversa consapevolezza.
il material adoperato nelle istallazioni di tre delle partecipanti è la terracotta, cosa che rende più serrate il dialogo tra gli elementi naturali e le vite degli esseri viventi che molteplici abitano intorno all’albero, tra le sue chiome, nelle pieghe della sua corteccia e sottoterra, ripristinando le relazioni segrete tra le specie viventi. sono i legami invisibili tra le radici profonde e la linfa che scorre nei rami quelli che jasmine pignatelli riporta alla luce perchè la muta parola dell’albero possa ricordarci la lingua antica di madre terra. un invito alla meditazione viene da stella gallas i cui 53 nidi di bianca ceramica predispongono a un rito di rinascita: l’artista seduta al centro di un nido-grembo attinge dall’albero la luce che la guiderà nella sua ricerca interiore.
sui legami recisi con il cosmo lavora claudia chianese le cui opere fungono da tramite per ripristinare l’unità tra opposti che è all’origine della vita e per sanare i conflitti che sempre più dividono natura e cultura, contrapponendo individuo e universo. come se non fossero parte della stessa materia e animati dal medesimo soffio. a cementare l’unione sarà la performance esserenatura di alessandra cristiani che celebrerà con una danza la trasformazione del suo corpo in quello di una pianta affinchè l’unità tra specie ed esseri viventi ritorni visibile a tutti.
l’evento è anche un occasione per familiarizzare con gli spazi dell’orto botanico di roma e conoscerne meglio i suoi abitanti perchè come suggerisce silvia stucky nella sua opera senza io, una funzione primaria dell’arte è quella di sollecitare nuovi sguardi su ciò che è intorno a noi e attivare nuova sensibilità nei confronti di uno spazio che, come il giardino, è stato concepito, nei secoli, come luogo dell’incontro tra ragione e sentimento, caos e ordine, natura e progetto. un’opera, la sua, non da guardare ma da agire in prima persona a partire da gesti minimi come quelli che hanno compiuto i giardinieri dell’orto ricoprendo di terra le radici dell’albero per favorire la continuità del ciclo vitale. gesti e soffi, mutamenti di luce e spostamenti di foglie sono stati registrati dall’autrice nell’album fotografico che contiene la memoria recente del noce.
l’operazione nasce dallo sconcerto e dalla rabbia dinanzi agli scampi che, su scala planetaria, stanno trasformando la natura in spazio da depredare con nessuna considerazione per le sue leggi e I suoi equilibri. all’interno di tale riflessione ecologista, le provocatorie isole di plastic realizzate da paola romoli venture e collocate intorno al noce, sollecitano uno scambio col pubblico sulle pratiche distruttive delle attuali politiche ambientali e suggeriscono comportamenti che ridiano all’umanità il senso della responsabilità riguardo al futuro della vita sulla terra. la filastrocca molti, molta, molte come un mantra accompagnerà il percorso iniziatico del pubblico.
anna d’elia
2015 | testo scritto in occasione della mostra genius noci | a cura di anna d’elia | museo orto botanico – roma |
non c’è silenzio
non c’è silenzio. un sottofondo costante di voci, suoni che scandiscono il quotidiano tra belati che rincorrono muggiti, galline che beccano nella polvere. anche il tintinnio delle campane giocano con l’immediato presente, delineando uno spazio interiore che stenta a trovare il proprio equilibrio nel tessuto visceralmente pulsante degli altri sensi.
ogni cosa – in India – è esponenzialmente eccessiva nell’affermare la convivenza di vita e di morte.
è così anche a vrindavana, nello stato dell’uttar pradesh, città di pellegrinaggi attraversata dal fiume yamuna, affluente del gange, noto anche come uno dei più inquinati al mondo.
krishna, suprema divinità dell’olimpo indù, avrebbe trascorso la sua adolescenza in questi luoghi dove è venerato dalla maggioranza della popolazione.
l’onda spirituale scorre libera nei recinti degli ashram e tra le mura dei templi antichissimi: se ne contano circa quattromila, tra cui il madana mohana celebrato nei dipinti dell’inglese thomas daniell (pubblicati nel 1808 in oriental scenery) e il govind deo, fotografato nella metà del XIX secolo da john murray, medico scozzese con la passione per la fotografia.
ma fuori da lì ad averla vinta sono le fatiche della sopravvivenza: afferrare un pugno di riso, sfidare pregiudizi e superstizioni, schivare aggressività e violenza.
tuttavia la grande speranza per un altro futuro c’è – eccome – a vrindavana. è fortissima, nutrita dalla consapevolezza che la scolarizzazione è il primo passo per aprire le menti e condurre lontano.
con questo spirito è cresciuta la sandipani muni school, che ha iniziato la sua attività nel 2001 con le lezioni pomeridiane, arrivando a contare quattro edifici in cui possono studiare (dalla nursery alla scuola secondaria) oltre un migliaio di alunni – femmine e maschi – provenienti dalle zone più povere della città e dai villaggi dei dintorni.
a crearla è stata la food for life vrindavan (FFLV), sviluppando un’idea di pietro paolinelli (devoto con il nome di rupa raghunath das) che dal 1990 distribuiva cibo ai pellegrini del sri krishna-balaram mandir, il tempio costruito nel 1975 per volontà di bhaktivedanta swami prabhupada, fondatore del movimento degli hare krishna.
“il cibo è stato il primo contatto con la gente del posto”, ha spiegato rupa raghunath das a claudia chianese che l’ha incontrato a vrindavana nell’estate 2012.
originario di lucca, il coordinatore internazionale di FFLV, ha vissuto nel regno unito dal ‘73 alla metà degli anni ‘80, alternando periodi in cui lavorava a londra come cameriere ad altri in cui assecondava il desiderio di conoscenza girando per il mondo. è la lettura della bhagavad–gita, nel 1986, a portarlo in india.
a tutti gli studenti e anche alle donne più indigenti, madri e vedove (steve mccurry ha definito vrindavan la città delle vedove: sempre avvolte nei sari bianchi queste donne ai margini della società trovano conforto nell’andare a morire in questa città santa) viene assicurato un nutriente piatto di kitchari (piatto vegetariano a base di riso, soia, verdure di stagione, burro, spezie, prezzemolo e limone), oltre alla divisa scolastica, all’occorrente per poter studiare, ai controlli medici.
fabbisogni materiali e spirituali si prendono per mano tracciando una traiettoria di speranza che non è basata sull’assistenzialismo, piuttosto sulla responsabilizzazione, sull’autonomia e sulla partecipazione collettiva.
“per arrivare alla scuola ho attraversato la città, sono uscita dalla vrindavana spirituale dei templi per entrare in una specie d’inferno, dove i bambini saltavano nelle pozzanghere, l’immondizia era dilagante e le condizioni di vita veramente difficili.” – afferma claudia chianese – “oltrepassando il cancello della scuola, invece, mi sono trovata in un luogo protetto, dal sapore indiano, senza finzioni né forzature, in cui tutto era ordinato e pulito. ho girato di classe in classe incontrando ovunque bambini sorridenti, sorpresa nel trovarmi di fronte ad un vero e proprio ecosistema costruito grazie a rapporti di fiducia e trasparenza.”
sandipani muni school non è che un elemento di un organismo più ampio – autofinanziato attraverso le donazioni – di cui fa parte un ospedale, un campo biologico, un allevamento di mucche, depuratori per l’acqua, una sartoria, una biblioteca, un laboratorio di informatica, un centro di riciclo di carta e stoffa, uno spaccio e anche il microcredito per le donne.
realtà che superano le aspettative stesse di claudia che, alla vigilia del suo terzo viaggio in india, avendo avuto notizie di questa scuola, decide di dar vita al progetto dieci occhi. più due.
“in india ho sempre avuto la sensazione di trovarmi di fronte a tutte le parti di me, anche quelle che mi piacciono di meno. l’india mi ha costretto a vederle. questo mi ha permesso di trovare delle sintesi tra gli opposti, raggiungendo un equilibrio che altrimenti sarebbe stato impossibile. parte della mia ricerca interiore, iniziata intorno al 2000, si è basata sul pensiero indovedico. ho studiato i testi sacri, tra cui la Bhagavad–Gita. la meditazione, in particolare, mi ha insegnato ad accedere a una parte di me più libera. rallentando le onde cerebrali possiamo accedere alla creatività allo stato puro, come i bambini.”
a vrindavan l’artista mette in moto un progetto rimasto sopito, che qualche anno prima avrebbe voluto realizzare in africa. “sono stata mossa dal desiderio di promuovere nei ragazzi la creatività e l’autonomia, due valori in cui credo molto. mi piaceva anche che loro attraverso questa espressione creativa potessero esporre il lavoro fotografico, raccogliendo dei fondi che potessero servire a mantenere i loro studi e quelli degli altri ragazzi, piuttosto che una semplice donazione.”
grazie alla generosità di alcuni amici claudia acquista cinque fotocamere digitali identiche che consegna ad altrettanti studenti – tra i 13 e i 17 anni – della sandipani muni school.
per gopal, madhu, radha, nikhil e mohan è la prima esperienza dietro l’obiettivo, non hanno neanche mai visto una mostra né un libro fotografico, non hanno internet né la televisione.
il reportage dura una settimana, in cui tutti insieme fotografano sfidando il caldo, la stanchezza, i cattivi odori. “Eravamo un gruppo compatto, era emozionante camminare insieme per strada e fotografare. i ragazzi hanno subito preso questo lavoro con grande serietà, ma anche con divertimento. ci prendevamo anche dei momenti per vedere insieme gli scatti e commentarli.”
nella lunga esperienza professionale in ambito pubblicitario prima e artistico poi, l’immagine ha sempre avuto un ruolo primario per claudia: studiare l’inquadratura, scandagliare i molteplici messaggi, afferrare l’attimo. queste sue conoscenze le ha sintetizzate, rendendole più accessibili e trasmettendole ai suoi giovani allievi, il cui racconto senza filtri sfiora gli strati del quotidiano su cui si sovrappongono – alternativamente – la freschezza dei gesti, le contraddizioni, le preoccupazioni.
negli scatti di questi ragazzi, che volutamente non sono associati al singolo autore, si legge anche l’entusiasmo della scoperta del mezzo fotografico e un approccio inconsapevolmente sintonizzato a quello di grandi interpreti indiani come homai vyarawala, prima fotogiornalista indiana, raghu rai e raghubir singh, fino alla dayanita singh degli esordi e alla generazione successiva di fotoreporter.
allo sguardo di claudia chianese, invece, la premura di documentare in tutti i suoi aspetti la realtà protetta della scuola, le dinamiche interne grazie alle quali l’organismo riesce ad autoalimentarsi.
a parlare sono soprattutto gli oggetti: i bidoni colorati di verde-giallo-azzurro per la raccolta differenziata dei rifiuti, gli zaini poggiati sui banchi, il frigorifero, i quadri storti, il peluche sul lettino dell’infermeria, una tavolozza di plastica con i colori ad acquarello sulla cui superficie lucida si riflette la fotografa.
questo doppio sguardo – interno/esterno, occidente/oriente – su cui è costruito dieci occhi. più due focalizza l’importanza del valore dell’istruzione, del rispetto per la persona.
“a quei cinque ragazzi ho chiesto che cosa volessero fare da grandi. tutti hanno detto che volevano continuare a studiare. c’era chi voleva fare il medico, chi lo psicanalista o il chimico. professioni che potessero servire ad aiutare agli altri.”
lo studio è l’alternativa a un destino segnato. “non guardate solo frontalmente.” – ha detto claudia ai cinque allievi della sandipani muni school di vrindavana – “ci sono altri punti di vista per osservare la realtà.”
manuela de leonardis
2014 | testo scritto in occasione della mostra DIECI OCCHI. PIÚ DUE | a cura di manuela de leonardis | spazio cerere – roma | progetto realizzato in collaborazione con cinque studenti della sandipani muni school di vrindavana (india)
dalla terra al cielo, dal ferro all’oro
entrare in sintonia con klimt è oggi una sfida non da poco. il nesso complesso stabilito dall’artista viennese fra una osservazione della realtà senza veli e ipocrisie, addirittura cruda (si rammenti la donna incinta nuda) e un’aspirazione alla spiritualità altrettanto radicale e fuori dalle convenzioni, all’insegna di un’eleganza decorativa ricca di simboli può costituire un traguardo difficile, ma non impossibile per claudia chianese. la ricerca della spiritualità di klimt si nutriva di stimoli provenienti dall’arte medievale bizantina e dal mondo della magia, mentre la ricerca di claudia trae ispirazione dalle simbologie dell’antica cultura egizia, così come dalla meditazione yoga e dal pensiero zen. se c’è qualcosa che è rimasto ancora attuale dopo il tramonto del postmodern, questa è la libertà nel cercare le proprie fonti, soprattutto in campo spirituale. è la fine della fede di tipo confessionale e il trionfo del sincretismo.
la figura serpentina della donna protagonista di cielo, terra. fuoco, mare ci rimanda alla simbologia del serpente, incarnazione della forza vitale in rapporto con tutti gli elementi fondamentali, celebrati dalla filosofia greca di talete, ma anche dalla cultura egizia, proprio attraverso la forma a spirale del serpente, simbolo di fecondità, energia, abbondanza, rinascita, rinnovamento, reincarnazione. abbinato all’oro il serpente diventa simbolo di regalità, ma può facilmente traghettarci verso la ricerca yoga dell’energia della consapevolezza che giace come un serpente dormiente dentro di noi. l’uso di un procedimento fotografico richiama di per sé un processo di trasmutazione che applicato su un supporto in ferro rivitalizzato da uno strato d’oro sembra alludere concretamente a un percorso alla ricerca dell’illuminazione. l’oro per gli uomini del medioevo, per klimt, ma anche per molti artisti di oggi rappresenta in assoluto il mondo della spiritualità.
mariantonietta picone
2013 | testo scritto in occasione della mostra collettiva io klimt | a cura di Francesco gallo mazzeo | palazzo dei consoli – gubbio
coincidenze
maraldi, principato, ferrero, chianese. quattro artisiti di diversa poetica, provenienza, tecnica, che misurano la loro forza immaginaria sulla lunghezza di una spiritualità modulata su astrazione, figurazione, metafora, simbologia, in una coincidentia che è tipica di questo nostro tempo, alto e crudele, in cui ciascuno può fare riferimento a se stesso per esprimere un linguaggio identitario, capace di riflettere una personalità e una leggenda. maraldi, artista di sicura dotazione figurale. principato, astratto e materico di valenza espressiva. ferrero, espressionistico esploratore di sogni. chianese riflessiva costruttrice di segni. coordinati da francesco gallo mazzeo, che in un testo poetico si coinvolge nell’evento, facendo da quadruplice specchio che riflette e moltiplica il lavoro della mente e della mano.
francesco gallo mazzeo
2013 | testo scritto in occasione della mostra collettiva coincidenze | a cura di francesco gallo mazzeo | bibliothè contemporary art gallery – roma